Emanuele Magri
 
 
 

Hanno scritto:

Franco BOLELLI, Omar CALABRESE, Biagio CEPOLLARO, Jacqueline CERESOLI, Giulio CIAVOLIELLO, Riccardo FERRARI, Eleonora FIORANI, Alessandra GALLETTA,

Angela MADESANI, Mirtha MAZZOCCHI, Gabriele PERRETTA, Roberta RIDOLFI, Carmelo STRANO, Antonella SBRILLI e Ada DE PIRRO.

 

 

Eleonora Fiorani

Distopicus Garden

Un labirinto trasparente in plexiglas a struttura modulare, articolato come una cattedrale organizzata per quadrati irradia suo centro l’acqua, fonte vitale di un immaginario Distopicus Garden, un laboratorio d’ingegneria genetica, abitato da immaginifiche e inaspettate creature, figlie di un processo di metamorfosi e d’innesti su piante e animali di organi umani mutando la loro natura originaria, o meglio riprogettandola in combinazioni complesse di parti e con varianti. Creature mostruose di un mondo prossimo venturo che già le bio e le nanotecnologie hanno reso parte del nostro presente. Le accompagnano immagini che ampliano ed espandono il campo visivo e l’immaginario verso altri scenari possibili e futuribili in cui queste creature escono dal giardino-laboratorio per abitare, come animali e piante domestiche, le strade del mondo e invadere il nostro quotidiano.

E’ questo l’approdo del percorso artistico di Emanuele Magri che parte da lontano, da La setta delle S’Arte, una sconcertante e camaleontica opera e performance-spettacolo, che ha generato opere e ulteriori messe in scena che ripercorrono la storia delle civiltà, nostra e altrui, mettendo in gioco il corpo, la moda e l’arte attuando una sorta di “travestimento” antropologico che sceglie il corpo, la veste, il rito, indagati dalle civiltà primitive a quelle contemporanee. Una veste che diventa maschera-vestito-testo-rito, in cui il gioco linguistico ha un ruolo determinante perché a suo dire “giocare con la parola significa giocare con il mondo”. E’ traduzione linguistica del mondo, quindi dell’arte stessa in cui gli esseri umani sono «messi in pagina» - diceva Michel De Certeau - sono «tramutati in significanti delle regole», mentre il logos della società si fa “carne”.

Nei Buddhagres sono le cose che, feticisticamente, prendono il posto dei corpi, mentre il corpo del Buddha diviene uno scrigno-contenitore di feticci che sostituiscono il corpo dell’artista e dell’opera. Gli oggetti che Magri ci mostra sono tutti rappresentanti e maschere del corpo dell’artista. Sono anche ciò in cui l’arte sembra dissolversi per cui l’atto di citazione e di carnevalizzazione investe direttamente, nella sua rappresentazione o immagine, l’arte nel corpo dell’artista nell’indistinzione da esso assunta con l’opera. Cappelli di Beuys, Serra, Luthy, scarpe di Horn, Johns, Gagliardi, vestiti di Depero, Fabre, Gilbert e Gorge, e borse, reggiseni… ciò che Magri ci mostra sono oggetti e frammenti di corpi, feticci, che si sostituiscono alla persona come insostituibili oggetti d’amore.

Ciò che accumuna il lungo percorso della ricerca è nell’emergere progressivo, nell’intricato gioco tra oggetti, immagini e parole, della dimensione del meraviglioso e del grottesco, che viene a occupare tutta la messa in scena.

Anche il Distopicus Garden, infatti, è un’installazione in cui vengono portate all’estremo la scomposizione e l’assemblaggio di singole parti del corpo interne ed esterne, il che equivale alla scomposizione e al rimontaggio di nuove creature, foriere di un nuovo mondo, utilizzando le infinite possibilità di manipolatorie che le nuove tecnologie mettono a disposizione. E Magri lo fa con valenza dissacrante, ironica o ludica, facendo il verso alla stessa scienza, riscrivendo le tassonomie di piante e animali, dando il nome alle nuove creature, compilando un “trattato di artologia genetica”, in una sorta di slittamento del confine tra ciò che vero e ciò che è falso, tra ciò che è serio e ciò che è ludico, tra riflessione critica e immaginazione, giocando con l’ibridazione per immaginare e dar vita a creature transgeniche.

E tuttavia la ricerca di Magri non si apparenta a quanti nell’arte l’hanno fatto operando sul proprio corpo come, per esempio, Stelarc con il terzo orecchio e il terzo braccio, o manipolando il Dna come Edoardo Krac con i suoi conigli e pesci fosforescenti nel settore più problematico ed eticamente discutibile che sono quelli della bioart e quelli delle biotecnologie che hanno dato avvio a mostruose creature come i Misfits di Grünfeld e gli ibridi di Filippo Armenise.

A me pare, infatti, che Magri, scegliendo di rimanere sul piano dell’immaginario nel riferimento attualissimo alle biotecnologie, si apparenti a un più antico repertorio d’immagini di origine orientale o iranica, largamente presente nella glittica greco-romana e poi, con i sui propri modi, nel gotico medioevale, un mondo di strane creature, ottenute per combinazioni di parti, analizzato da quello straordinario critico e iconografo che è Jurgis Baltrusaitis nel suo Medioevo fantastico. Vi compaiono i mostri ottenuti per combinazioni di teste con gambe o a facce multiple su differenti parti del corpo, i grilli antichi, le divinità acefale e multicefale. E loro presenza nel 400 e 500, come quelli magnifici di Bosch con i suoi grilli uccello e grilli insetto e i vari ritratti. E ci sono anche le piante zoomorfe e le piante parlanti nelle leggende e immagini islamiche, l’Albero della Vita con le teste e tutti gli immaginifici alberi medioevali e molto altro ancora.

E’ quello che lo storico Jacques Le Goff chiama il meraviglioso, termine che viene da mirror, per dire che fa spalancare gli occhi, e dunque ha sempre a che fare con il vedere: comporta un guardare. Il fatto è che ogni società secerne il suo meraviglioso e dà a esso i suoi propri significati. Mentre quello medioevale e della prima modernità del 400-500 attingeva dal mondo orientale e greco-romano, è a Freud e al lato notturno e oscuro della psiche umana che ha volto lo sguardo l’arte visionaria dei surrealisti nella sua stessa componente erotica in cui vita e morte si confondono.

Ora a me sembra invece che il meraviglioso contemporaneo abbia a che fare piuttosto con le nuove tecnologie, ma nel farlo a sua volta Magri ne coglie e fa riferimento alla sua valenza gotica tutt’altro che estranea al meraviglioso tecnologico e che quindi più che con una categoria astratta, come modernamente intendiamo il meraviglioso, siamo di fronte a una nuova forma di mirabilia, che non sono solo cose che l’uomo può ammirare con gli occhi ma anche immagini e metafore visive. Così, mentre l’inesausta proliferazione e invenzione linguistica fatta da Magri dei nomi e delle teorizzazioni e della tassonomia organizzano il ciclo delle opere mimando la metodologia scientifica nel suo stesso uso della lingua morta del latino, ben altro dicono le piante, gli animali, i bipedi (organi dotati di piedi), i bipedi al guinzaglio, gli inversi, cui si aggiungono la serra e il Trattato di artologia. In essi domina la leggerezza e una sorta d’innocenza. Ciò che ci incanta è l’invenzione delle forme e dei colori delle sue creature fantastiche e degli organi che ospitano: bocche, nasi, gambe, piedi, fegati, polmoni, genitali, bulbi oculari, occhi… per il loro essere dotati, in una sorta di moderno animismo, da una sconvolgente vivacità. Non c’è oscurità, ma un meraviglioso splendore.

E, se certo possiamo anche vedere nel Distopicus Garden il valore conoscitivo e critico dell’arte, il sospetto che emerge, nell’interrogarci sul ruolo delle nuove biotecnologie e su ciò che si nasconde anche nell’attuale ritorno alla natura, è che forse i veri mostri siamo noi.

Mi vengono allora in mente apparentamenti con alcune figurazioni di immaginario metamorfico che troviamo nelle Notes in Hand, il privato notebooks, di Claes Oldenburg o con le strane creature dell’universo immaginifico di Tony Ousler in cui sfumano i confini tra essere uomini ed essere cose in un processo di metamorfosi che trasfigura le loro fisionomie in una più simile a quella animale o vegetale.

 E. Fiorani
 

 

Eleonora Fiorani

Il gioco sull’arte e l’arte in gioco

 Se l’arte è gioco, come si vuole da Freud in poi, particolarmente per le “avanguardie” con la loro asimmetria, il gioco sull’arte è, a sua volta, arte e “invenzione”. La setta delle S’Arte di Emanuele Magri è una sconcertante e camaleontica opera e performance-spettacolo, che genera opere e ulteriori messe in scena che ripercorrono la storia delle civiltà, nostra e altrui. Ora l’artista disegna tracciati di “corpi” (multipli o prolungati) che contengono icone o frammenti di testi e personaggi famosi o noti del mondo dell’arte: il cappello di Duchamp, la capigliatura stridente, fittizia e mortuaria di Warhorl… E’ un atto di citazione e di carnevalizzazione, di grottesco, che investe direttamente l’arte nel corpo stesso degli artisti, nelle loro rappresentazioni o immagini, nell’indistinzione dall’opera.

Noi dobbiamo capirlo e goderne partendo dalla prima mossa, nel suo “travestimento” antropologico che sceglie il corpo, la veste, il rito, indagati dalle civiltà primitive a quelle contemporanee. Ecco che, in apertura della Setta delle S’Arte, che trascriviamo, si dice «e’ stata recentemente scoperta l’esistenza sul nostro territorio di una società segreta, la setta delle ‘S’arte’ dai misteriosi riti di iniziazione, corteggiamento, fertilità, guerra, funerari. Il logo deputato dei riti è la maschera-vestito, che le S’arte chiamano vesti-testo o vesti-rito (…) I riti si incentrano sulla parola. Le S’arte credono nel suo valore magico: giocare con la parola significa giocare con il mondo».

Se ora raccogliamo alcuni stimoli per esemplificare tale operazione, dobbiamo innanzitutto fermare la nostra attenzione sul travestimento del corpo in tutte le sue forme: dalla iscrizione diretta,  in cui viene decorato, istoriato, bucato, torturato, spellato, a quella della significazione e costruzione operata dall’abbigliamento e dall’ornamento per giungere alla loro immagine e a quella delle cose che, feticisticamente, prendono il posto dei corpi.

Il presupposto di tutto ciò è la traduzione linguistica del mondo, quindi dell’arte stessa. E dunque è la scrittura che trasforma la carne in corpo. Gli esseri umani sono «messi in pagina» - diceva Michel De Certeau -  sono «tramutati in significanti delle regole», mentre il logos della società si fa “carne”.  Il logos, come si sa, è la lingua, la ragione, la legge, l’ordine. Per questo si è corpi solo conformandosi ai codici: non c’è qualcosa che non sia scritto, risplasmato – o meglio c’è solo il grido o il sintomo, che può rompere il silenzio del corpo non semantizzato, che peraltro non c’è. Di conseguenza, non c’è nessun sapere o arte o legge che non si iscriva sui corpi, che non se ne appropri, che non li marchi, facendone un suo testo. E lo fa attraverso iniziazioni e riti cosicché i corpi diventano quadri viventi di regole e costumi, attori di un teatro sociale. Allora i vestiti stessi possono essere intesi come strumenti grazie ai quali la legge sociale plasma i corpi, li regola, li esercita attraverso i cambiamenti della moda. Per loro tramite, infatti, riplasma la figura fisica, togliendo, aggiungendo, facendo così dire ai corpi i loro codici. E allora anche gli oggetti dei sacrifici e quelli della tortura, e quelli della medicina e dello sport e della cura del corpo appartengono agli strumenti che costruiscono la trasformazione sociale e individuale del corpo.

E dunque, il corpo non è più qualcosa di dato, ma è una costruzione: il corpo si educa, si ripara, si fabbrica. E Emanuele Magri gioca a sua volta con tutto ciò, avendo di mira l’arte. Anche l’arte si iscrive e si incorpora nei corpi come si innesta nel circuito dei media fin dai tempi della Pop Art, portando all’estremo la dislocazione, il raddoppiamento di immagine e oggetti per dar loro un’esposizione estraniata e allarmata. E anche diventa lingua del corpo, come è avvenuto di nuovo in questi ultimi anni in cui la ricerca artistica ha riscoperto il corpo, anche nella sua dimensione corporale di carne e di sangue come avviene nella Body Art. L’azione di tagliarsi è asserzione della realtà in quanto tale, non è annullamento del corpo o di sé, ma un tentativo radicale di (ri)guadagnare una solida presa sulla realtà oppure di ancorare saldamento il proprio ego nella realtà corporea, contro l’insopprimibile angoscia di percepirsi come non esistente.

Nel lavoro di molti artisti del post-human la ridefinizione del corpo e della figura che lo rappresenta avviene attraverso la scomposizione e l’assemblaggio delle parti, che equivale alla composizione e al rimontaggio di un nuovo io che trae dalla composizione dei frammenti la propria ragion d’essere, la propria nuova identità.

Sono molti corpi che oggi popolano il mondo artistico, e sono piuttosto interessanti. E’ in atto, nella presenza e iperrealtà del corpo, una ri-creazione di sé attraverso la commistione di elementi naturali e di finzione, e la combinazione di una molteplicità di frammenti che appartengono a dimensioni temporali differenti, e che trova nelle opere di alcuni artisti degli interessanti esempi. Sono esperienze che si collocano all’interno di una riflessione che fa i conti con una molteplicità di fattori riguardanti sia la dimensione dell’arte, il suo sviluppo, un suo possibile e nuovo linguaggio. E’, ancora una volta, un corpo furbo, ha osservato Loredana Parmesani, un corpo allenato nelle tecnologiche e pubblicitarie palestre dei media. Un corpo non più naturale, ma curato, coltivato, corretto, perfezionato tecnologicamente secondo modelli mediatici, televisivi, pubblicitari che interagiscono con i modelli naturali e familiari che lo hanno generato.

Cosicché il gioco diventa duplice: il corpo dell’artista e il corpo dell’arte si ibridano e si confondono. Il corpo dell’artista scompare nella sua corporeità, così come pare scomparso il corpo fisico e naturale dell’uomo contemporaneo, ma prende vita nella virtualità dell’immagine: è evidente il desiderio di divenire un artista star, un luminoso punto di riferimento per tutti quanti. In un passaggio del testo delle S’Arte si dice: «Contro l’eresia pubblicitaria: - La pubblicità usa il corpo per vendere il prodotto – le S’arte usano il prodotto per pubblicizzare il sacro».

E’ lo sguardo, si sa, fa sorgere l’immagine. Per questo la pulsione scopica è quella che ci incanta e incatena, ma è anche quella che inganna più di tutte le altre: crea il proprio oggetto, gli dà corpo e lo consegna al soggetto perché lo adori. Così oggi restano solo il vestito e l’arte. Ma come si sa il vestito veste solo l’io, e l’arte che cosa veste?  Forse il nulla del soggetto. Della stessa immagine restano solo frammenti che Magri mette in cornice in un buddha-icona, a sua volta puro involucro vuoto, in cui si dissolve il corpo dell’artista che diventa parte del corpo della moda.

Se ora l’autore ha già fatto cose di tale ironia, perfidia, insensatezza, follia, che cosa può darci di ancora più perverso? Non possiamo che essere “critici” e pensare che, sconfinando e spostando in ambienti e in corpi da lui pensati certe opere che ci hanno incantati, o egli è un impertinente competitore che approfitta di un periodo dove l’arte è incerta, e le stesse avanguardie si sentono smarrite, o che, con un gioco perverso di carnevalizzazione, voglia dirci che oggi anche l’arte è stata contaminata dalla merce e appartiene alle merci simbolicamente sovraccariche e portatrici di identità e stili di vita, che animano l’attuale economia del simbolico.

 E. Fiorani
 

 

Eleonora Fiorani

“Tempi amari”: Oracoli corporali

Una sognante fanciulla vestita di blu, che si porta un dito alla tempia, alle sue spalle il mare, e una scritta “Tempi amari” che non intrattiene nessuna relazione con l’immagine. Che cosa c’è lì? Che significa quel che vedo?

Emanuele Magri ancora una volta inventa percorsi di immagini e parole, che in questa sua nuova ricerca e serie di opere assumono la figura del rebus, del dire con immagini o cose, come anche si faceva un tempo nelle tecniche e nei teatri della memoria come fossero dei tableaux vivants. Rebus, ablativo del latino res, vuol infatti alla lettera dire “per mezzo di cose od oggetti” per significare un genere di gioco: la ricostruzione di una parola o frase per mezzo di segni e di immagini. Nei rebus c'è un piano della realtà, che è manifesto ed uno che invece è simbolico, insieme diventano un tutt'uno producendo un effetto straniante, di stupefazione. Del resto conoscere è combinare il sensibile con la mente, è libero gioco di facoltà in cui le sinestesie si fanno concetti e viceversa i concetti si fanno visibili, divengono esperienze vissute, emozioni. Accade così che nonsense, proverbi, frasi ludiche si intreccino come un interludio o un divertissement. Dunque, niente di più innocente e innocuo, almeno a prima vista, se non fosse che, come ci insegna Magritte fin di tempi di “Les mots e les images”, nel tradursi, incontrarsi, collidere, sostituirsi di parole e immagini di cose, oggetti, corpi non si esercitassero la relatività della conoscenza, le false tautologie, le negazioni paradossali, e, insieme, l’autoinganno della percezione, del vedere e creare corrispondenze.

E Magri ce lo mostra dandoci il rebus già risolto. Non c’è nulla da indovinare, perché è il meccanismo stesso del rebus l’oggetto da indagare, quello che permette di portare l’attenzione sull’inganno dei linguaggi e sull’autoinganno della coscienza moderna e, così facendo, di sottrarsi alla spettacolarizzazione dell’immagine. L’immagine infatti traduce l’aspettativa dell’occhio ed è tradita dall’abitudine di considerarla il sostituto dell’oggetto. Così, lo scollamento tra immagini e parole, quello che Foucault chiama “il calligramma disfatto”, stimola alla scoperta di zone d’ombra del pensiero e alla creazione di nuovi rapporti tra le immagini e le parole, per lo più ignorati.

Inoltre, giocando con le immagini e le parole, provocandone la confluenza, la collisione, lo stridore, Magri, mettendo in scacco l’automatismo del pensiero, interroga insieme l’eccedenza e lo svuotamento di senso dell’immagine, la deriva, l’apertura di uno spazio determinata dalla caduta delle immagini tra le parole. La cifretta del rebus diviene un surplus di cifra: le immagini debordano e le lettere della lingua destrutturano le immagini, le scavano, fluttuando senza spessore sulla loro superficie. Sulla densità dell’immagine, sulla sua compiutezza, sul suo enigma le lettere introducono nella solidità dell’immagine un ordine che appartiene solo a loro, e iscrivono sensi altri, ma sono anche scritture smarrite, sono una sorta di erranza in cerca di un ancoraggio o di un altro luogo. E però è proprio in questo scarto che emerge il “senso”; e, poiché la produzione di senso non ammette resistenze e resti, essa produce voragini, buchi neri, che ci costringono a soffermarci sull’immagine e a vagare sulla sua superficie alla ricerca di ciò che l’occhio e la mente non hanno visto.

Le immagini ritornano come fantasmi, allargano la loro chiave semantica in ogni direzione e si prestano ad ogni appropriazione. Così l’uso del “rebus”, e cioè della sua doppia natura di immagine e di segno alfabetico, viene condotto a esplorare il corpo: mani, seni, petto, occhi, fronte, nari, dita, collo, omeri, anca, stomaco, falange, schiena, mascella… Un corpo a sua volta scritto, dopo essere stato messo in immagine, diventato puro significante, quindi giocato a significare altro da sé in montaggi e combinazioni. Perché, nell’assenza di un luogo comune che le possa sostenere, le immagini hanno la stessa sostanza delle parole, così i corpi diventano parole che compongono frasi. E però il segno linguistico fa fuggire l’oggetto corpo, non per mostrare che sotto l’immagine non c’è nulla, ma piuttosto che forse potrebbe esserci altro, dato che il concatenarsi di forme che si possono nominare comporta l’articolarsi di una frase il cui senso è senza rapporto con ciò che si vede.

“Oracoli corporali” è il nome che Magri ha dato a questa serie di opere in progress. Oracolo allude a una forma di divinazione: era il responso di una divinità su cose ignote del passato, presente o futuro. Il corpo-immagine e segno ha preso il posto della divinità: è ambiguo e plurisemantico come lo erano i responsi della divinità, e come loro ammaliante.

A sua volta il temine stanze per le frasi si presta a diverse interpretazioni: dal luogo delimitato da pareti alla sua valenza di strofa di una canzone o di un componimento autonomo, quali sono le frasi. Le parole non meno delle immagini hanno infatti sostituito la realtà e sono il luogo che abitiamo. Inoltre gli oracoli possono assumere le più diverse messe in scena, a parete come quadri, o disporsi come luoghi da percorrere fino a formare un labirinto senza centro, in cui “meditare” alla ricerca di possibili o inesistenti lacerti o frammenti di senso nella rete di immagini e di parole in cui siamo immersi. O forse per ritornare all’origine dell’arte e della concettualità, laddove il passaggio dal gesto alla parole, e quindi alle sue prime forme di rappresentazione segnica, accompagna la presa di coscienza del proprio esistere. All’inizio c’era il gesto e tutto era racchiuso nel gesto e la parola stessa era gesto.

E. Fiorani
 

 

Angela Madesani

Oracoli corporali in amari tempi di intollerabile paura

I rebus sono giochi per abili solutori di enigmistica. Chi è in grado di risolverli entra nella loro dinamica, negli intrecci, nei rapporti spazio-temporali determinanti per giungere al risultato. Una criptica vignetta si spiana in brevi frasi senza valore concettuale: la nonna tesse la tela, cammelli vagolanti nel deserto e così via. Sostantivi, aggettivi, articoli, preposizioni: nulla di più. Con Emanuele Magri la situazione è assai diversa. L’artista, è vero, entra a pieno nella dinamica dell’enigmistica, che ben conosce e diviene lui stesso creatore di rebus, ma lo scopo è totalmente diverso.

Le immagini, con le quali lavora, perlopiù fotografiche, da lui realizzate in tempi e luoghi diversi, sono giocose, gradevoli. Spesso ci troviamo di fronte a corpi nudi femminili: titolo della serie di lavori in mostra è Oracoli corporali.

Le soluzioni degli stessi non sono sempre facili da trovare, ma poco importa perché nella maggior parte dei casi è lui stesso a svelarcele insieme al rebus.

Non sono frasi casuali quanto pesanti considerazioni sul tempo in cui viviamo.

È questo un lavoro che auspica una partecipazione dello spettatore che diviene attore dell’opera. Lo spirito non è quello del gioco. Attraverso il rebus Magri riesce ad analizzare, a prendere in considerazione delle situazioni. A rebus risolto prende il via una seconda fase, quella puramente riflessiva della sua ricerca. Si tratta di essenziali aforismi che sottolineano il clima del tempo in cui ci è dato vivere: tempi amari. Il suo rapporto con la scrittura, con il linguaggio è intenso. Dietro un’immagine piacevole c’è il risvolto lapidario della medaglia, che va al cuore delle cose: tocchi l’argomento delicato.

Come non far correre il pensiero alle tristi cronache italiane dell’oggi: aver diversi ciarpami morali, ti spianerà la strada, far ingenerose illazioni, chi nasce dedito all’oro, esaltare nefandi valori, fama scellerata, loschi e nati mediocri, aver mire nefande? È un ritratto tragico e cinico al tempo stesso, in cui la bellezza è solo il punto di partenza. I riferimenti mi paiono chiari. Non sarà certo una risata a seppellirci, anche se, forse, sarebbe auspicabile.

Dietro la sola apparente leggerezza del gioco si cela la scelleratezza di un momento storico incerto, in cui a dominare è una paura diffusa, un bisogno di audience a tutti i costi, la mancanza pressochè totale di prospettive, di un progetto e di un sogno collettivo.

Il rebus è lo sbriciolamento della parola, che perde di senso. Anche qui si va oltre l’immediatezza della lettura. Si pensi al mondo della comunicazione pubblicitaria, in cui immagini accattivanti sono accompagnate da frasi scollate e prive di senso. Il codice linguistico e il codice iconografico sono indipendenti l’uno dall’altro. L’interesse non è nei confronti del gioco e della sua soluzione, come a Roy Lichtenstein non era certo il fumetto a interessare. Il medium è messaggio per citare le parole di uno dei nostri padri culturali, di cui quest’anno cade il centenario dalla nascita, Marshall McLuhan.

Nei lavori di Emanuele Magri, viaggiatore, incuriosito da mondi diversi, l’immagine veicola messaggi eterogenei di natura sociale, etica, filosofica e i corpi mettono in scena un testo particolarmente oneroso.

La sua opera è stata recentemente esposta nell’interessante mostra romana Ah che rebus. Qui il suo lavoro è una sorta di totem, collocato in mezzo alla sala espositiva: un’architettura del linguaggio. Lo spettatore deve compiere un’azione fisica oltre che mentale, per riuscire a cogliere l’opera nella sua completezza. In un tempo di velocità, di abituale distrazione di fronte a tutto, di consumo veloce delle cose, il suo è un tentativo di catturare lo spettatore e di imporgli, gentilmente, una breve, ma succosa pausa di riflessione.

Le sue riflessioni sono anche di natura esistenziale: una sorte fragile, come rose appassite, aver dura la vita. Si percepisce un senso sottile e profondo al tempo stesso di morte, di precarietà. Tutto è legato all’attimo, all’istante, in aperto contrasto con quanto ci è dato vedere.

«Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!», così Dante nel Purgatorio, sono passati settecento anni, ma il discorso funziona ancora. Si tagliano i soldi per la cultura e i musei diventano affittacamere e Magri, pacato, come nel suo stile propone a soluzione di un rebus: chi usa le arti per fini negativi.

A. Madesani
 

 

Antonella Sbrilli
Ada De
Pirro

A cura di Antonella Sbrilli e Ada De Pirro, Ah che rebus Cinque secoli di enigmi fra arte e gioco in Italia, Istituto Nazionale per la Grafica, Palazzo Poli, Roma dicembre 2010-marzo 2011 (catalogo Mazzotta).

Si tratta di una messa in scena della fotografia nella sua accezione primaria.

Ci sono Oracoli corporali di diverse forme: alcune rimandano al quadrato, altre sono mensole di misure diverse in cui le opere sono come dei piccoli paraventi. E quindi le strisce che sono come una parte soltanto progettuale della mostra. E quindi l’opera totem, come quella esposta a Palazzo Poli, a Roma.

Emanuele Magri ha una formazione letteraria e per molti anni ha insegnato storia dell’arte.

A cura di A.Sbrilli e A.De Pirro, Ah che rebus Cinque secoli di enigmi fra arte e gioco in Italia, Istituto Nazionale per la Grafica, Palazzo Poli, Roma dicembre 2010-marzo 2011 (catalogo Mazzotta).

A. Sbrilli e A. De Pirro