MEDIO ORIENTE

Palestina

Israele

Alla biennale di Venezia avevamo già constatato un forte contrasto tra il padiglione di Israele ai “Giardini”, curato da Doreet Levitte Harten e dedicato a Raffi Lavie, e la mostra collaterale della Palestina al convento dei santi Cosma e Damiano alla Giudecca. Da una parte la ricerca di trovare dei punti di riferimento forti per costruire una storia, necessariamente recente, dell’arte israeliana (Raffi Lavie è un punto di riferimento importante perché ha introdotto nell’arte israeliana del dopoguerra i modi dell’astrattismo internazionale) dall’altra un discorso molto incentrato su un presente drammaticamente conflittuale. D’altronde, in Israele tutto è volto a dimostrare la presenza di questo popolo in questa terra (promessa) a cominciare dall’archeologia. Il Museo di Israele, nella Gerusalemme moderna (quella che era la Gerusalemme israeliana prima della guerra dei sei giorni del 1967) ruota attorno allo “Shrine of the Book” che celebra il ritrovamento di ampi frammenti della Bibbia a Quram. La storia dell'"Israel Museum" è singolare. E' l'unico museo al mondo nato prima della sua nazione, nel senso che nel 1906 viene aperta la "Bezabel school of arts and crafts" con adiacente museo che si arricchisce nel tempo di ritrovamenti archeologici, oggetti rituali ebraici, pittura e scultura moderna, nonché esemplari di zoologia (ricordiamo che a Gerusalemme esiste uno zoo biblico) e botanica finché nel 1965 nacque quello che è il museo di oggi progettato da Frederick Kiesler e che vanta tra le varie opere la raccolta di arte dadaista e surrealista di Schwartz. L’opera di Kiesler non è solo ispirata dalla copertura della giara dei ritrovamenti in questione ma si rifà a tutto il suo lavoro di ricerca sul concetto di “Endless House” che si può considerare alla base di molta architettura contemporanea (“l’architetto più progressista del tempo” lo considerò Peggy Guggenheim per la quale curò il mitico allestimento, in particolare la Sala dei surrealisti con le pareti curve, della sua galleria “Art of this Century” nel 1942.

Attualmente è in atto un profondo processo di ampliamento per far posto a tutte le sue straordinarie collezioni. Quello che si vede all’ingresso è il grande plastico della Gerusalemme del 70 d.c. con il tempio distrutto poi dall’esercito di Tito. (Inizio della diaspora) che ci spiega la sacralità del muro del pianto che è quel che rimane del tempio stesso.

Nel "Billy Rose Sculture Garden", il giardino del museo che Isamu Noguchi ha sistemato a terrazze, le opere spiccano dalla ghiaia bianca e dal verde, come in un giardino zen. Ancora una volta sorprende l'opera di James Turrel "Space that Sees" 1992 a cui si accede scendendo verso la grotta di ingresso per godere ancora una volta di quel ritaglio geometrico di cielo.

Anche il "Tel Aviv Museum of Art" è stato aperto nel 1932 prima della fondazione dello Stato di Israele. L'attuale sede è del 1972 (ed è ricca di opere dell'otto/novecento. Ovviamente particolare attenzione va riservata a Chagall in quanto vero artista ebreo che proprio nella tradizione ebraica trova la sua fonte di ispirazione. (Nella Sinagoga a pianta quadrata dell'Hadassah Medical Center c'è il suo capolavoro in questo senso: le dodici vetrate (tre per parete) con la rappresentazione simbolica (animali e non la figura umana) delle dodici tribù di Israele).

Anche qui grandi lavori di ampliamento che porteranno alla creazione di un’ampia area che comprende l’auditorium ecc.

In questo periodo c’è la grande mostra di Zadok Ben David. Partito quarant'anni fa dalla "Bezalel Academy of Arts and Design in Gerusalemme" per stabilirsi a Londra dove ha preparato mostre per gallerie anche a Sidney e Seul, ritorna al suo paese di origine.E’ un filone interessante quello che parte dalla tradizionale tecnica del "paper cutting" che serve per il festeggiamento dei vari momenti del ciclo della vita secondo gli Ebrei (ketubahs, mizrachs, mezuzahs, e benedizioni varie della casa). (Archie Granot è uno dei maestri di questa tecnica con uno stile personale molto ben definito. L’uso del bisturi chirurgico serve a creare una calligrafia raffinatissima fatta di strati diversi e di una texture complessa).

Al "Tel Aviv Museum of Art" è il ferro a essere traforato come trina o merletto. La mostra di Zadok Ben David ha per titolo "Human Nature"(fig.1) : l'immagine dell'uomo, degli alberi, degli astri, vedi "Sunny Moon" (2008) (fig.2) relazionati dalla stessa natura che ha a che fare con quel che si usa dire per cose non sempre buone "E' nella natura umana".

A febbraio ci sarà la mostra “Hekhalot” (adesso al Museo Pecci di Prato) di Lena Liv artista russo/israeliana che tratta il materiale fotografico in funzione di una rappresentazione magica del mondo e del tempo. L’oggetto che emerge fantasmaticamente dalla foto riconduce anche quello reale, messo lì davanti, grazie a una particolare illuminazione, in un mondo irreale (fig.3).

La conquista dei territori, dichiarati dall’ONU territori palestinesi, da parte dei coloni israeliani è un problema affrontato da vari artisti e in particolare in questo periodo da Yanai Toister sempre al Tel Aviv Museum of Art e da Shlomo Serry alla “Casa degli artisti” a Gerusalemme che si trova, per inciso, vicino al palazzo della Bezael school of art di cui abbiamo già parlato e a Ben Yehuda, la via pedonale più "in" di Gerusalemme per bar e ristoranti. Le foto di Shlomo Serry documentano come i costruttori partono da una baracchetta adibita a ufficio vendite e poi arrivano i camions, i buldozzer e si comincia a erigere palazzi. Per dare una parvenza umana all’operazione si usano colori rosa pastello, o riferimenti culturali come il fatto che tra i primissimi quartieri israeliani c’è stato quello di Yemin Moshe con la costruzione di un mulino a vento (fig.4) che doveva dare farina per tutti.

A Tel Aviv abbiamo intervistato una giovane artista che ha esposto anche a Milano alla galleria "Milleeventi": Noga Imbar. (Noga come Noga Communications, la TV via cavo che è tra gli sponsor del film di Eyan Sivan “Jaffa-la mecanique de l’orange” che ha vinto Filmmaker 2009 e che ha suscitato grandi polemiche in patria per la sua posizione critica nei confronti della politica di aggressione verso i palestinesi). Noga Imbar ha lo studio in una via molto vicina a Rothchld Boulevard che insieme a Dizengoff è un concentrato di architettura Bauhaus. (Patrimonio dell'umanità Unesco) Il suo lavoro parte dalla raccolta di un archivio di immagini che si è concretizzato in un libro senza testo in cui le sole immagini dicono dell'ossessione individuo/gruppo e serialità. Anche qui, volendo, si può ritrovare un lavoro di ritaglio, per esempio nella serie "1924". L'immagine della stessa ragazza che ricorre nelle fotografie dell'amante viene ritagliata come a togliere, negare questo oggetto di ossessione.

Un altro lavoro interessante consiste in interventi su fotocopie di "Matzpen" un magazine molto in voga nel 68-69 in arabo e israeliano, come a riprendere un impegno politico che era della madre che ha lavorato per quel giornale. Ovviamente il lavoro di questi giovani artisti difficilmente trova spazio in gallerie grosse come quelle nella Gerusalemme moderna dove l'altra faccia della medaglia è costituita dalla Galleria "Eden" la cui direttrice presenta in una festa di colori opere estremamente ludiche di artisti che giocano con le parole e le immagini. Così David Kracov con “Read my lips” (fig.5) o Dorit Levinstein che ripercorre alcuni momenti clou della storia dell'arte rifacendo il flautista di Manet piuttosto che le tre grazie di Raffaello, l'autoritratto di Frida Kahlo, o la Venere di Botticelli.

Nel quartiere cristiano della Old City di Gerusalemme, alla "Al-Ma'mal Foundation for contemporary Art" viene riproposta una mostra di artisti palestinesi già presentata a Bruxelles. E’ "Never-part", curata da Jack Persekian. Sono lavori ovviamente incentrati sul conflitto senza fine che segna la storia della Palestina come quello di Nida Sinnokrot che unisce in un unico oggetto vittima e carnefice; l'oggetto che offende e quello che ripara, l'oggetto sciamanico e l'amuleto. "AKh-48" (2008) (fig.6) è in parte un mitra e in parte una stampella, La stampella è il calcio del fucile-mitragliatore. Ci fa pensare a tutti i paesi che combattono o hanno combattuto in nome di qualcosa e si ritrovano con migliaia, non solo di morti, ma anche di invalidi di guerra che hanno perso gambe, braccia quando non la testa come nel film “Nella valle di Elah” di Paul Haggis. O il lavoro di Vera Tamari con "Woman at the door" 1992 (fig.7) parla di sradicamento, di una donna, la madre dell'artista, che vive a Jaffa, città di mare bellissima, ed è costretta a lasciare la città e i suoi beni anche affettivi e trasferirsi a Ramallah quando nel 1948 gli israeliani si impossessano di quel territorio. D'altronde è il discorso che fa da tempo Mona Hatum, la più famosa del gruppo, con opere come "Doormat" del 1996 il tappetino da mettere davanti alla porta di ingresso della casa con su scritto "Welcome". Il tappetino è fatto di chiodi. Qui presenta "Bukhara" 2007 (fig.8), un tappeto che sembra in stato di disintegrazione ma le tracce di questa distruzione disegnano un mondo. Il tappeto è ancora una volta l'unica cosa che è stata salvata da una fuga tragica nel 1948.

Mona Hatum è presente anche al "Israel Museum" di Gerusalemme con "Current Disturbance", 1996, un opera che da una parte attrae dentro di sé con quelle lucine accese dentro a cellette cubiche che però emettono suoni di varia intensità che ci mettono in apprensione. Opera molto simile come struttura a quella presentata quest'anno alla Biennale di Venezia alla Fondazione Querini Stampalia. "Interior Landscape", un cubo che sembra magicamente sospeso nello spazio fatto di fili che però sono spinati. Tutto questo ci ricorda la mostra a Parigi chiusa recentemente (novembre 2009) «Palestine: la creation dans tous ses etats» curata da Mona Khazindar all’Istitut du Monde Arabe con undici artiste donne su diciannove. Nella mostra, sempre incentrata sull’essere strappati dalla propria terra, spicca tra le altre l’opera di Emily Jacir (l’altra più celebre artista come Mona Hatoum “leone d’oro” alla biennale di Venezia 2007) che suona come un grido di guerra, “Memorial to 418 Palestinian Villages whic were Destroyed, Depopulated and Occupied by Israel in 1948” (fig.9).

Emanuele Magri
29 Gen. 2010

 

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Fig. 1  Zadok Ben David - "Human Nature"
 
Fig. 2   Zadok Ben David - "Sunny Moon"
 
Fig. 3  Lena Liv - “Hekhalot”
 
Fig. 4   Shlomo Serry
 
Fig. 5  David Kracov - “Read my lips”
 
Fig. 6  Nida Sinnokrot - "AKh-48"
 
Fig. 7  Vera Tamari
 
Fig.  8  Mona Hatum - "Bukhara" 2007
 
Fig.  9  Emily Jacir