ASIA CENTRALE

UZBEKISTAN

Istanbul

NUKUS IN FABULA

Un viaggio in Uzbekistan porta in genere alla visita delle città più famose sulla Via della seta, Samarcanda e Bukara, e della meno conosciuta Khiva, un gioiello cinto da mura in cui si concentrano tutte le bellezze viste prima, moschee, madrase, minareti iperestaurati nei rivestimenti a piastrelle blu, raggiungibile dopo sette ore di macchina nel deserto. Si può, poi, proseguire visitando fortezze in rovina di grande suggestione (come la zoroastriana Torre dei Morti) per raggiungere Nukus, cittadina assolutamente anonima con un Museo che sarebbe normale in qualsiasi città del mondo, ma non in questa dispersa capitale della regione del Karakalpakstan.

Lo “Savitskiy Karakalpakstan State Museum of Art” presenta, insieme a interessanti raccolte archeologiche e etnografiche, la collezione di arte contemporanea del pittore e archeologo russo Igor Savitsky: opere dell’arte russa e uzbeka degli anni ’20 e ’30 estranee al realismo socialista e dunque invise al regime staliniano, raccolte da Savitsky nel Museo archeologico da lui fondato e diretto dal 1966 a Nukus. Il Museo dal 2003, a URSS ormai frantumata e Uzbekistan indipendente, ha una nuova, ampia sede, è fortemente sostenuto da stati stranieri e ha rapporti spesso conflittuali con il dittatoriale governo uzbeko.

Simbolo della raccolta, invero di qualità assai eterogenea e di matrice artistico-culturale assai difforme, è The Bull di Vladimir Lysenko (1920), artista fortemente attaccato dalla critica stalinista perché il suo lavoro non rispecchiava lo spirito del tempo, arrestato nel 1935 e riabilitato nel 1953.

La storia della raccolta viene ricostruita nel documentario The desert of forbidden art di Amanda Pope e Tchavdar Georgiev (2000), visto in varie città del mondo e da ultimo, prestato dall'archivio dello “Schermo dell'arte Film Festival”, durante le giornate di Artissima alla Fondazione Agnelli.

Proseguendo il viaggio in Uzbekistan - e nella sua produzione artistica -, si giunge al Lago Aral in progressivo e inarrestabile prosciugamento, a causa anche dell’utilizzo delle acque dei fiumi immissari per la monocultura del cotone. A questa catastrofe ecologica l’uzbeka Saodat Ismailova (nata nel 1981) aveva dedicato il documentario Aral. Fishing on an Invisible Sea (2004), vincitore di diversi premi in festival internazionali: racconta la storia delle popolazioni che vivono o sopravvivono ai margini di questo lago, pescando quel che sopravvive in esso o appropriandosi dei relitti di barche ormai arenate nel terreno deserto. L'anno scorso al Festival di Cannes la Ismailova aveva presentato 40 days of silence, storie vere di donne tra maternità, tradizione, religione, patria, sessualità, emotività nella società uzbeka profondamente radicata nell'Islam, rimodellata dal comunismo, recentemente diventata indipendente ma retta da una dittatura.

Ancora Ismailova quest’anno alla Biennale di Venezia rappresenta l'Uzbekistan nel Central Asia Pavillon in Palazzo Malipiero, commissionato da HIVOS (Humanist Institute for Development Cooperation) e con 7 opere di artisti provenienti dalle 4 repubbliche ex sovietiche: l’Uzbekistan con la detta Ismailova e Vyacheslav Akhunov; il Kazakistan con Ikuru Kuwajima e la coppia Kamilla Kurmanbekova-Erlan Tuyakov; il Tagikistan con Anton Rodin e Sergey Chutkov; il Kirghizistan con Aza Shade.

I curatori sono Ayatgali Tuleubek (Kazakistan 1985) e Tiago Bom (Portogallo 1986), entrambi artisti residenti a Oslo, probabilmente tra i curatori più giovani nella storia della Biennale di Venezia. Il titolo Winter, ispirato a una poesia del pensatore e poeta kazako Abay Qunanbayuli, fa riferimento allo stato di stagnazione culturale di tali paesi guidati in maniera dittatoriale dagli stessi personaggi che detenevano il potere durante l'epoca sovietica, con megalomani capitali monumentali come Astana, Taskent, Biskek, e luoghi con ordinati percorsi turistici segregati dalla città reale come Samarcanda.

Ismailova presenta Zukhra (2013), che in uzbeko significa Venere ma anche brillante desiderio, un poetico video ispirato a un suo ricordo d’infanzia: “Da bambina, ero svegliata da mia nonna, ogni alba, in inverno, per vedere l'ultima stella nel cielo: Zukhra-Venere. Secondo la legenda c’era una giovane ragazza che misteriosamente scomparve e riapparve nel cielo come una stella. C'è la convinzione che, vedendo la stella, si può esprimere un desiderio che sarà realizzato da Zukhra.”

“As a child, I was awakened by my grand mother every dawn in winter to see the last star in the sky: Zukhra – Venus. According to the legend there was ayoung girl that mysteriously disappeared and reappeared in the sky as a star. There is a belief that one can ask for a wish when seeing this star; this will be granted by Zukhra.”

Di donne tratta, in maniera meno sognante, la kirghiza Aza Shade (nata nel 1989), le cui fotografie professionali di aggressiva sensualità ben rispondono a quanto da lei affermato in una intervista fattale da Lauren Brown sul suo considerarsi artista: “Non proprio. Quando ero giovane pensavo che gli artisti erano poveri e che io non volevo essere povera perché volevo comprare una casa a mia madre. Così sognavo di diventare attrice.”

“Not really. When I was a kid I thought that artists were the poorest and I didn’t wanna be poor because I wanted to buy my mum a house and all that. So I dreamed to be an actress.”

Diversamente, nel video The Disappearing City (2011), ambientato nello scenario spettrale del Lago Aral con una baracca di legno e un barcone in disuso, protagonista è il conflitto tra madre e figlia e tra tradizione e modernità: mentre la figlia cerca di emanciparsi scambiando le lunghe vesti tradizionali per quelle corte occidentali, la madre mette in scena l’ambiente tradizionale allo scopo di venderlo ai turisti; mentre la figlia vorrebbe andarsene da lì, la madre la riporta a recitare la sua parte di suonatrice tradizionale.

L’opera di Vyacheslav Akhunov (nato nel 1948 in Kirghizistan, vive a Tashkent, Uzbekistan) Breathe Quietly è costituita da grandi lettere in cirillico che attraversano la parete tra due stanze, e invitano a “respirate con calma”; progettata già negli anni 70 come monumento pubblico che denunciava ironicamente il clima di intimidazione del periodo sovietico, la sua riproposizione dopo quarant'anni dice molto del perdurare di tale contesto. Akhunov non si può muovere dall’Uzbekistan e non ha potuto essere né a Documenta, né a Venezia e neppure a Milano in occasione, in anteprima mondiale, della sua prima personale in una galleria d’arte e precisamente alla Laura Bullian Gallery, a cura di Marco Scotini, dove ha esposto anche disegni caratterizzati dalla manipolazione delle immagini della propaganda Socialista.

Il lavoro dei tagiki Anton Rodin (nato nel 1988), giornalista freelance, e Sergey Chirkov (nato nel 1984), Coordinatore del programma per il centro Culturale Battriana della capitale Dushanbe, ricopre le pareti di lettere, Letters from Tajikistan, 2013, che denunciano sofferenze e disagi di individui, gruppi e strati sociali della popolazione.

Astana Winter Urbanscapes (2010-2011) di Ikuru Kuwajima (nato nel 1984) mostra con grandi, patinate fotografie la megalomane capitale del Kazakistan costruita dal nulla nel 1997, in cui i monumentali edifici contrastano con il deserto urbano e con quello naturale, immenso, circostante.

Infine, ancora dal Kazakistan vengono Kamilla Kurmanbekova (nato nel 1986) e Erlan Tuyakov (nato nel 1985) che presentano Zhol (la via), lavoro di grande impatto e legante di tutta la mostra. La tecnica tradizionale di montaggio di una yurta – abitazione dei nomadi – crea qui una struttura del tutto diversa: non una tenda-nucleo in cui ci si raccoglie attorno al fuoco ma uno stretto passaggio, un corridoio che forma un percorso entrando e uscendo dalle varie stanze, che non è leggibile nella sua totalità perché sfugge a una visione globale, restituendo la mancanza di un centro nella società, l'impossibilità di un'interazione sociale, la costrizione a girare individualmente attorno ai problemi senza trovare una soluzione.

Non è solo il Padiglione. I curatori hanno voluto “coinvolgere una varietà di pratiche attraverso la mostra, la pubblicazione e un programma parallelo di conferenze, proiezioni di film e conferenze in Asia Centrale, a Venezia e a Oslo. Il nostro obiettivo è quello di agire da catalizzatore per un dibattito pubblico realmente aperto su questioni quali il rapporto tra l’arte e le strutture di potere, il suo potenziale di generare un impatto sulla società, e le possibili strategie che gli artisti possono mettere in atto in situazioni di precarietà e in tempi di oppressione”.

Emanuele Magri
9 ‎febbraio ‎2012

 

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Fig. 1  Bull
 
Fig. 2  
 
Fig. 3  Nukus Art Museum
 
Fig. 4
 
Fig. 5 
 
Fig. 6 
 
Fig. 7  AzaShade
 
Fig.  8  SaodatIsmailova Zukhra
 
Fig.  9  Central Asian Pavilion
 
Fig. 10 
 
Fig. 11 
 
Fig. 12 
 
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