AFRICA

MAROCCO

BIENNALE MARRAKECH

“Où sommes nous maintenant?” è la domanda che pone agli artisti la “Marrakech Biennale 5” con la sua direttrice artistica Alya Sebti e i curatori delle varie sezioni. Riguardo soprattutto alla situazione del Marocco, tanto che gli artisti sono stati invitati qui per confrontarsi con la situazione locale (il novanta per cento delle opere sono site specific), ma la Biennale coinvolge tutta la città in una quantità di luoghi sia quelli canonici dell’arte (musei e gallerie) sia con progetti paralleli e parternariati, e l’esposizione di opere prodotte dagli artisti in residenza a Tetouan. Quattro i posti principali dell’evento: Palazzo el Badi, Dar Si Said (che è la sede del Museo d’arte Marocchina), Bank al Maghrib, L’Blassa.

Una delle caratteristiche più interessanti è che si tratta di un progetto che coinvolge le arti visive, la letteratura, il video, il cinema, e la nuova disciplina “arts vivants” diretta da Khelid Tamer volta a creare una interazione nello spazio pubblico e a coinvolgere gli abitanti di Marrakech. Così, come il Radio Happening “Here and Now”, fiera delle voci urbane o il progetto “Here, now, where” che è l’ascolto in taxi di voci preregistrate di altri che hanno viaggiato prima di noi. Ed è interessante l’incontro non solo con giornalisti di arte ma anche con altri con vari interessi come per esempio Elisa Pierandrei che si occupa dei problemi dei paesi di lingua araba, o la Dame de Tamadot cioè Eva Branson fondatrice della Fondation Branson che opera per aiutare la popolazione circostante la Kasbah Tamadot ai piedi dell’Atlante, acquisita dal figlio e dotata di Hotel.

Prima tappa Palazzo el Badi di cui restano solo le rovine all’interno della cinta muraria. In questo scenario suggestivo sono state installate alcune opere alcune delle quali fanno uso del sonoro per accentuarne l’aspetto coinvolgente. Una è quella di AsimWaqif “Le pavillon de Debris” e l’altra è quella di Cevdet Erek “Courtyard Ornamentation with sounding Dots and Prison”. L’opera di Hassan Khan e Ibtesam Gazder “We always have options” cinque scale che portano ad altrettante porte. Al centro dello spiazzo del palazzo l’opera di Max Boufathal “Madonna 2007” che simula un complesso archibugio per combattere chissà quali battaglie da parte dei suoi personaggi stravaganti. Presenti anche nel film “Towards the possible film” (2014) di Shezad Dawood in cui tre personaggi dispersi in un deserto si confrontano con due esseri venuti dallo spazio fino ad arrivare al conflitto. Fatto con mezzi minimi il film riesce a creare l’atmosfera giusta di attesa e di suspence in un mondo altro per elaborare il quale di solito occorrono mezzi straordinari.

Poi comincia una sfilata di giovani suonatori e giocolieri equilibristi che sottolineano il ritmo dei primi con dei barili di latta fatti roteare e battuti per terra preceduti da ruote dipinte e atri marchingegni.

Si arriva a Dar Si Said che è la sede del Museo d’arte Marocchina. Qui le opere degli artisti contemporanei si inseriscono all’interno del contesto espositivo con un effetto interessante. E anche qui installazioni sonore come quella di Mounira Al Solh in cui due Minbar si guardano e le casse al di sopra di essi sembrano parlarsi. Opera che ci ricorda tante soluzioni concettuali, eppure intrise della cultura araba. Così come l’opera “MurMurMure” di Gabriel Lester, il gruppo le cui mani sbucano dalle tre pareti bianche di un cubo e suonano strumenti a corda o a percussione. È quello che ha attirato l’attenzione di tutti se non altro perché ci si ferma ad ascoltare la musica coinvolgente.

Una sala è dedicata alle opere di Eric Van Hove.
Eric Van Hove è un artista nato in Algeria, a Guelma, ha passato parte della sua giovinezza in Cameroon e vive tra Bruxelles e Tokio. È fondamentalmente un viaggiatore. Molti suoi lavori sono stati fatti in giro per il mondo. Confrontandosi con la situazione in cui si trova e interagendo con essa come in “Metagram series” in cui dipinge sulle pance di donne appartenenti a diversi gruppi etnici una sua “firma”, mettendo in campo alcune delle tecniche da lui normalmente usate come la calligrafia, la fotografia e la performance. Ha lavorato nell’Oasi di Siwa in Egitto come in Tibet sul monte Kailash, in Nicaragua, in Kirghizistan orientale, in Madagascar, sull’Himalaya, in Cina, a Ramallah, a Teheran, ad Amman a Serajevo.

Qui a Dar Si Said gli è stata riservata una delle più belle sale in cui, giustamente le opere sono state esposte su piedestalli neri con una illuminazione tipo gioielleria che ben si addice a questo tipo di elaborazioni raffinate. Una serie di oggetti che partendo da strumenti meccanici, pezzi di motore si coniugano con gli elementi e materiali dell’artigianato marocchino.

Cosicché noi vediamo che la partenza sta nella testata del motore con valvole e otturatore, molle, il volano con il disco della frizione e i bulloni, la pompa dell’acqua, la parte del collettore di aspirazione, l’iniettore del carburante, la bancata di cilindri, l’albero a camme, aste e bilancieri della testa del cilindro destro, i componenti del sistema di raffreddamento del motore, il blocco dei cilindri con la pompa dell’olio, carter, pistoni, bielle, spinotti, ecc. ma vediamo tutt’altro.

Alla Bank al Maghrib troneggia nella sala iniziale, quella da cui si dipartono poi tutti gli altri spazi espositivi, l’opera che ha accentrato l’attenzione di tutti i visitatori per la sua complessità. Si tratta di “V12 Laraki” (2013) una replica del motore V12 Mercedes-Benz usata da Abdeslam Laraki nella Laraki Fulgara la prima vettura sportiva di lusso in Marocco. Laraki aveva sperato di montare la vettura interamente in Marocco, ma fu costretto a importare il motore dalla Germania. Ognuno dei suoi 465 componenti è stato fatto a mano in uno dei 53 materiali tradizionali marocchini.

Che qui vale la pena elencare per dire come si sia confrontato con la situazione locale creando però qualcosa di globale: cedro bianco del Medio Atlante, cedro rosso di Atlas, legno di noce, di limone, d’arancia, di Macassar, di Thuya, rosa, albicocca, faggio marocchino, ebano, mogano, madreperla, rame giallo, placcato, rosso, nichel, ferro forgiato, alluminio riciclato, argento, stagno, ossa di mucca, di capra, malachite di Midelt, agata, onice verde, occhio di tigre, Taroudant, pietra, sabbia, marmo rosso di Agadir, nero di Ouarzazate, bianco di Béni Mellal, granito rosa di Tafraoute, pelle di capra, di mucca, di agnello, resina, corno di bue e di montone, fossili di ammoniti del Paleozoico da Erfoud, Ourika, argilla, terracotta, smalto verde di Tamgrout, vernici, cotone, olio di argan, sughero, henné, Rumex.

Un’opera complessa che unisce il prodotto tecnologico industriale con quello manuale artigianale ma che nello stesso tempo mette in discussione tutto un sistema di produzione e di considerazione dell’arte. La preziosità dei materiali, la perizia dello smontaggio degli ingranaggi del motore, come si vede da un video, il gusto delle associazioni e degli incastri, la capacità di entrare in una cultura, coglierne le sfaccettature, il contrasto tra la tradizione e la voglia di modernità.

Sempre alla Bank al Maghrib sia a pianterreno che nei piani inferiore e superiori si hanno una serie di opere, per lo più installazioni di giovani autori marocchini. In attesa che si realizzi Il Museo della fotografia e delle Arti Visuali di Marrakesh su progetto di David Chipperfield alcune opere fotografiche sono momentaneamente ospitate qui alla Bank come quelle di Hicham Benhayoun “Marrakesh pour moi” e quelle di Hicham Benohoud “La salle de classe”. E anche qui una stanza è occupata dall’opera di Lili Reynaud-Dewar: fogli neri riportano il nome di autori come Ben Jellun, Jean Genet, Paul Bowles con i titoli dei relativi testi che sentiamo letti e riprodotti mentre stiamo seduti su comodi tappeti. Sulla terrazza da cui si assiste allo spettacolo della piazza sottostante, affollata e rumorosa degli spettacoli degli artisti di strada, un’opera di Katinke Bock che scompone e ricompone il pavimento della terrazza stessa.

E ancora a L’Blassa un palazzo che normalmente è abbandonato ma che per l’occasione viene utilizzato per far lavorare i vari artisti nelle varie stanze per cui si assiste all’opera degli stessi in diretta. All’ingresso “Le salon par Hassan Hajjaj” configura un mercatino dei suoi prodotti venduti anche a Londra.

Tutto questo per non parlare del programma di teatro al Theatre Royal, di cinema al Cinema Colisee, di letteratura al caffè letterario Dar Cherifa e nelle varie Gallerie.

Sempre Eric Van Hove alla Voice Gallery espone “Testosterone”. In questo caso invade la galleria coi suoi ingranaggi di motori e con il relativo odore di olio e lubrificanti e li trasforma con tutti gli altri materiali di cui abbiamo parlato

Galerie Tindouf con lavori che presentano influenze berbere africane arabe e occidentali come nel caso di Lalla Essaydi, le cui figure umane, vestiti e tappezzeria diventano un tutt’uno di sommersi dalla scrittura. Il mondo globale, pertanto, avanza e l’occidente perde ulteriormente spazio di manovra.

Emanuele Magri

Questo articolo è stato pubblicato su:
 Juliet
Art Magazine n° 168 di giugno-luglio 2014

 

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Fig. 1   Eric Van hove
 
Fig. 2  Eric Van Hove
 
Fig. 3  Eric Van Hove
 
Fig. Eric Van Hove
 
Fig. 5  Gabriel Lester - "MurMurMure"
 
Fig. 6  ingresso Bank al Maghrib